mercoledì 13 settembre 2017

Resistenza armata e ripudio della guerra



Dall'Extra di Città Nuova sulla politica della nonviolenza attiva 

una domanda al filosofo Roberto Mancini 
Fiamme verdi. Partigiani cattolici nella guerra di Liberazione
Ultimamente abbiamo salutato Tina Anselmi, come figura esemplare della Repubblica, che ha cominciato la sua attività politica con l’entrata in clandestinità nelle formazioni partigiane. Sono anche i 100 anni di Teresio Olivelli, il leggendario partigiano cattolico dei “ribelli per amore”. Esempi di cristiani che hanno preso le armi per difendere i diritti calpestati da una dittatura inumana. Come si può affermare il ripudio della guerra affermato sancito nella Costituzione di una Repubblica nata dalla Resistenza prevalentemente armata?



La via della nonviolenza apre a una forma di vita che implica la cura verso le persone e gli esseri viventi, in ogni relazione. Siamo così di fronte a una scelta di azione e a un atteggiamento profondo che generano uno stile di esistenza. Tale precisazione è necessaria perché la stessa parola “nonviolenza”, che ha una suono soltanto negativo, fa pensare a una specie di ritiro dai conflitti e dai problemi, alla passività di chi è intento solo a mantenere pura la propria coscienza.

In verità la nonviolenza è l’espressione di una conversione radicale delle persone e anche delle comunità, lì dove si stabilisce una distanza dalla tendenza alla violenza e invece si aderisce all’Amore come origine e verità della vita.
Chiarito questo punto fondamentale, si comprende che chi fa una scelta simile non può causare o inaugurare alcuna guerra. 

Teresio Olivelli partigiano dei Ribelli per amore
La stessa esperienza della Resistenza, in Italia, nella seconda guerra mondiale, non corrisponde a un muovere guerra. Tale esperienza ha dato seguito semmai alla scelta estrema di dover prendere le armi per porre un argine al dilagare del male e della distruzione. E’un atto tragico di responsabilità, che non lascia intatta la coscienza di chi lo compie, perché costui si assume una parte di colpa nell’utilizzare da parte sua la violenza contro la violenza del nazifascismo. Ma la situazione di allora era così compromessa e tragica che rifiutarsi assolutamente di assumersi tale responsabilità sarebbe stato una colpa maggiore. 

Tutti i maestri della nonviolenza, da Gandhi a Bonhoeffer, sostengono che quando si arriva a questo estremo, c’è anche il dovere di fare una scelta tragica, ma in ogni caso questo non va elevato a principio di moralizzazione della violenza “giusta”, che poi sarebbe puntualmente invocato nelle situazioni future e da chiunque. 

Benigno Zaccagnini partigiano cattolico
L’omicidio è sempre omicidio. Quindi la Resistenza non rende morale l’uso della violenza. La moralità della Resistenza sta solo nell’aver posto un limite allo strapotere del regime della violenza, assumendo la contraddizione per poter avviare la risalita oltre una condizione totalmente compromessa dal male. Chi si trova su un confine così tragico deve operare per riaprire tutte le possibilità di convivenza pacifica e della democrazia che ripudia la guerra. 

Ed è precisamente quello che fecero quanti diedero vita alla Resistenza non con spirito di vendetta o commettendo rappresaglie. Queste persone si battevano per una società completamente diversa: basta leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea per averne la testimonianza.

Si noti la differenza di prospettiva: chi si riferisce alla Resistenza per dire che esiste la violenza giusta spreca e fraintende il senso di quel gesto tragico, mentre lo coglie chi lo riconosce come il monito a lavorare per prevenire le situazioni di mancanza di alternativa, costruendo sistemi educativi, sociali, economici e politici che amplino sempre di più la libertà dalla violenza.


venerdì 27 gennaio 2017

Camillo Torres e Jean Goss. Un dialogo incompiuto

Il messaggio di papa Francesco sulla nonviolenza come stile di una politica di pace è stato annunciato pubblicamente mentre la città di Aleppo in Siria è stata riconquista dalle truppe di Assad, alleate della Russia. 
Un fatto, quest’ultimo, salutato da molti come una liberazione dal dominio delle forze integraliste prevalenti tra i ribelli. Qui il video della festa nel settore cristano armeno della città.

Per anni parte dei media italiani hanno spinto, invece, ad un intervento più diretto degli Usa e dei suoi alleati contro Assad.

Su quel Paese si è abbattuta la violenza inaudita di una guerra azionata da interessi strategici risalenti ai principali attori internazionali.

Sta di fatto che il messaggio prevalente è quello dell’intervento armato come necessario per ristabilire un ordine di pace e di giustizia, con l’esempio storico della lotta armata necessaria contro Hitler.

La questione della nonviolenza si pone di solito con riferimento alla risposta di coloro che sono oppressi
Era la domanda che agitava la coscienza di Camillo Torres, sacerdote colombiano di ottimi studi universitari a Lovanio in Belgio, fondatore della scuola di sociologia nel suo Paese come strumento non solo di analisi ma di conoscenza per cambiare il mondo.

Davanti allo strazio e allo sfruttamento dei poveri, Camillo decise di imbracciare il fucile rimanendo ucciso nel lontano 1966 il primo giorno della sua militanza guerrigliera. Un percorso che ricorda i racconti della Resistenza.

Una morte prevista e prevedibile come quella di Guevara, nel 1967, esercitando il fascino di una coerenza estrema e definitiva seguita da molti in quegli anni:Il testamento di Camillo Torres è stato messo anche in musica.   


 
La scelta della nonviolenza arriva da chi prova non tanto l’indifferenza e l’assuefazione al male ma uno sdegno profondo e radicale che muove all’azione.



Bisogna porsi quindi seriamente davanti all’opzione della nonviolenza, senza moralismi e omissioni, a partire dalla crudezza della domanda aperta dal terrore esercitato dal fanatismo ossessivo come dal sistema costruito dall’  “economia che uccide”.


A proposito della scelta di Camillo Torres, circola da tempo questa testimonianza di un suo lungo colloquio notturno avvenuto con Jean Goss e Hildegard Mair, esponenti in prima linea del Movimento internazionale per la riconciliazione (Mir). 


Un pezzo di storia da ascoltare che registra il punto di vista di questa coppia europea di pacifisti radicali in missione nell’America Latina rovente di quegli anni dove i regimi mettevano in pratica le tecniche di tortura apprese nella “Scuola delle Americhe” di Panama finanziata dai governi statunitensi.


Camillo Torres fu il primo prete dell'avanguardia cristiana che incontrammo in America Latina. Egli era all'epoca cappellano studentesco all'Università statale e insegnava sociologia. Dato che era molto occupato, riuscimmo a fissare un colloquio con lui solo poco prima della nostra partenza.  
Il colloquio, però, riempì una notte intera. 

Camillo srotolò di fronte a noi la totalità delle strutture dell'ingiustizia, dell'oppressione, dello sfruttamento e della dipendenza nella società e nella Chiesa della Colombia e di tutto il continente, mostrandoci i bisogni e le sofferenze del popolo. 
Dichiarò che aveva cercato il dialogo con la classe dirigente e con la gerarchia, ma che era impossibile.

La Colombia aveva una lunga storia di "violencia". Concluse con queste parole: “Non vedeva alla fine nessun'altra possibilità se non quella della rivoluzione”. 

Fummo molto impressionati da questo sacerdote, che lottava per la giustizia con tutte le fibre del suo cuore e della sua volontà
Jean replicò: “Come francese ti comprendo molto bene. La nostra rivoluzione nel nome della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità ha ispirato molti popoli. Ma che cosa si fa, effettivamente, in una rivoluzione, in una guerra? Diciamo apertamente la verità: si uccide!

Anch'io ho combattuto con forza contro Hitler. Chi ho ucciso? Hitler, i dirigenti del partito? No, semplici cittadini tedeschi, che erano costretti a prestare servizio nell'esercito del dittatore

Tu farai lo stesso: ucciderai il popolo, uomini del popolo che, costretti dal bisogno o dal regime, verranno spediti contro la guerriglia, contro di te! 

Camillo, chi dovresti uccidere, se fossi coerente? I tuoi genitori, dato che tu provieni dalla classe alta, poi i tuoi compagni di scuola, che sono diventati dirigenti politici ed economici, generali, vescovi...”. 

Camillo Torres era colpito, taceva. 
Poi proruppe in una domanda bruciante, che proveniva dal profondo della sua coscienza e del suo cuore e che sentimmo ancora molte volte: “Jean, come si può essere fedeli al popolo sofferente ed alla sua liberazione ed, al tempo stesso, al Vangelo dell'amore di Gesù, che rispetta anche i nemici?”.
 

“C'è solo una strada, Camillo: mettere in pratica la radicalità del vangelo, cioè la forza liberatrice della nonviolenza di Dio”. 

Continuammo a parlare fino alle prime ore del mattino su questa forza e sulla sua pratica. “Nessuno ci ha insegnato la nonviolenza di Gesù, né in seminario in Colombia, né all'Università cattolica di Lovanio. Restate qui, lavorate con noi, forse potremo trovare insieme questa strada!”. 

Esitammo, pensammo di avere ancora molto da imparare per un simile compito. Sbagliammo?

Camillo Torres, spinto dalla convinzione di dover attuare rapidamente cambiamenti rivoluzionari, proseguì la sua lotta. I vertici ecclesiastici rifiutarono il dialogo, i suoi collaboratori si staccarono da lui, non ritenevano maturi i tempi.  
Alla fine egli si unì da solo alla guerriglia
Solo poche settimane dopo, il 15 febbraio 1966, fu ucciso dalle forze di pubblica sicurezza. Rimase un modello per molti cristiani impegnati, soprattutto per molti preti. Camillo Torres è rimasto fedele fino all'ultimo alla sua coscienza.  

La teologia dell'uso giustificato della violenza che gli era stata insegnata poteva avere valore per lui solo a fianco degli sfruttati

Dato che non conosceva l'alternativa, egli dovette scegliere con consequenzialità la resistenza armata. La Chiesa, che non insegnava la nonviolenza di Gesù, ha un'enorme responsabilità. Spesso ha spinto i suoi migliori sacerdoti e laici alla lotta armata.

(Da “Come i nemici diventano amici” di J. Goss e H. Mayr)
fonte blog Adesso su Città Nuova 

    

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